Quando i sistemisti governarono la Terra
scritto daCory Doctorow
racconto vincitore del Premio Locus 2007
Illustrazioni di Rob Dumuhosky
Titolo originale: When Sysadmins Ruled the Earth - Traduzione di Stefano Bonora (ha collaborato Elisabetta Vernier) - Rilasciato in licenza creative commons (attribution - non commercial - share alike)
Quando il telefono speciale di Felix squillò alle due di notte, Kelly, rigirandosi, gli tirò un pugno sulla spalla, per poi sibilargli: — Perché non spegni mai quel cazzo di coso prima di andare a letto?
— Devo essere reperibile. — Rispose lui.
— Non sei un cazzo di dottore — disse lei, tirandogli un calcio. Nel frattempo Felix si era seduto sul bordo del letto per infilarsi i calzoni che aveva lasciato sul pavimento appena prima di andare a dormire. — Sei un dannato sistemista.
— È il mio lavoro — disse lui.
— Ti fan lavorare come un somaro — disse lei. — Lo sai che ho ragione. Per amor del cielo, sei un padre di famiglia ora, non puoi metterti a correre nel mezzo della notte ogni volta che qualcuno non riesce a scaricarsi un porno. Non rispondere a quel telefono.
Felix sapeva che sua moglie aveva ragione. Rispose al telefono.
— I router principali non rispondono. Il BGP non risponde. — Alla voce meccanica del sistema di controllo gli insulti non facevano alcun effetto, quindi la insultò, e questo lo fece sentire un poco meglio.
— Forse riesco a sistemarlo da qui — disse. Poteva collegarsi all’UPS del rack e riavviare i router. L’UPS stava in un segmento di rete differente, con router indipendenti e sistemi di alimentazione di emergenza separati.
Kelly sedeva sul letto, una forma indistinta contro la testata. — In cinque anni di matrimonio non sei mai riuscito a sistemare niente da qui.
Quella volta aveva torto: sistemava le cose da remoto in continuazione, ma con discrezione e senza fare troppe scene, ed era per questo che lei non se ne ricordava. Ma allo stesso tempo aveva anche ragione. Dai log si vedeva chiaramente che dopo l’una di notte non poteva essere più sistemato senza prendere la macchina e andare al rack. Era la Legge della Malvagità Universale, conosciuta anche come la Legge di Felix.
Cinque minuti dopo Felix era al volante. Non era riuscito a sistemarlo da casa. Anche la rete dei router indipendenti era giù. L’ultima volta era successo perché un muratore rimbecillito aveva tranciato con l’escavatore il principale condotto dati del datacenter. Per una settimana Felix si era unito allo squadrone di cinquanta furiosi amministratori di sistema che, in piedi davanti alla buca, insultavano i poveracci costretti a lavorare giorno e notte per ricollegare tra loro diecimila cavi tranciati.
Il telefono suonò altre due volte mentre era in macchina, e lui lasciò che la voce automatica sovrastasse l’autoradio e gli recitasse dagli altoparlanti il malfunzionamento di altre infrastrutture di rete. Poi chiamò Kelly.
— Ciao — disse.
— Non fare il ruffiano. Guarda che dalla voce si sente.
Sorrise involontariamente. — Ma no, ho controllato, nessuna ruffianeria.
— Ti amo, Felix — disse lei.
— E io sono completamente pazzo di te, Kelly. Torna a letto.
— Due punto zero è sveglio — disse. Il bambino era in beta test quando stava nel grembo di sua moglie; quando le acque le si ruppero e lui ricevette la chiamata, si precipitò fuori dall’ufficio gridando — Stiamo andando in Gold! — Cominciarono a chiamarlo 2.0 prima che smettesse di piangere il suo primo pianto.
— Questo piccolo bastardo è nato per succhiare capezzoli.
— Mi spiace di averti svegliata — disse lui. Era quasi arrivato al datacenter. Non c’è traffico alle due di notte. Rallentò e accostò prima dell’ingresso del garage. Non voleva far cadere la linea andando sottoterra.
— Non è perché mi hai svegliato — disse lei. — Lavori lì da sette anni. Hai tre dipendenti sotto di te. Quel telefono devi darlo a loro. Tu hai già dato abbastanza.
— Non mi va di chiedere di fare qualcosa che non sono disposto a fare anch’io.
— Ma tu l’hai già fatto. Te lo chiedo per piacere. Odio svegliarmi e trovarmi sola. Di notte mi manchi tantissimo.
— Kelly…
— Non sono più arrabbiata. Mi manchi e basta. Quando sei con me faccio bei sogni.
— OK — disse lui.
— Tutto qui?
— Esatto. Tutto qui. Non voglio che tu abbia gli incubi e ho già dato abbastanza. D’ora in avanti mi prenderò le reperibilità notturne solo per coprire i periodi di ferie.
Lei rise. — I sistemisti non vanno in ferie.
— Il tuo ci andrà — le disse lui. — Promesso.
— Sei meraviglioso. Oddio, che schifo. 2.0 ha appena fatto un core dump sulla mia vestaglia.
— E bravo il mio ragazzo.
— Tutto suo padre — disse lei. Riattaccò e Felix condusse la macchina fino al parcheggio del datacenter, fece passare il tesserino e sollevò una stanca palpebra per permettere allo scanner della retina di dargli una bella guardata nell’occhio assonnato.
Si fermò al distributore per prendersi una barretta energetica al guaranà-medafonil e del velenoso caffè da macchinetta. Sbranò la barretta e sorseggiò il caffè dalla tazza anti-rovesciamento, dopo di che la porta interna lesse la forma della sua mano e lo misurò in un istante. Si aprì con un sospiro e una ventata di aria a pressione positiva lo investì quando infine riuscì a entrare nel sancta sanctorum.
Era un casino. Le sale server sono progettate per permettere a due o tre sistemisti di lavorarci contemporaneamente. Ogni altro centimetro cubo è destinato alle ronzanti fila di server, router e dischi. Ma in quell’istante non erano meno di venti le persone che si accalcavano attorno agli armadi. Formavano la prevedibile adunata di magliette nere dalle scritte incomprensibili e di pance cascanti sopra cinture dalle quali pendevano telefonini e coltellini tascabili.
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